Avere una lunga esperienza da chirurgo senologo aiuta a osservare i processi che riguardano la ricerca e le evoluzioni terapeutiche, ma anche i mutamenti della relazione tra i medici e le persone che definiamo “pazienti”. Le donne che opero e seguo successivamente nel percorso del follow-up entrano a far parte di una rete di conoscenze il cui lato affettivo si è sempre rivelato fondamentale: ho capito molto presto, anni fa, che portiamo dentro risorse preziosissime capaci di modificare in una parte notevole la risposta alle cure e la reazione alla malattia.
Il potere terapeutico o distruttivo delle parole
Comunicare non è solo una questione di chiarezza e di correttezza professionale: è un vero e proprio potere terapeutico oppure distruttivo, in base all’uso che facciamo delle parole.
Un aspetto che personalmente considero miope e profondamente criticabile è l’abbandono della delicatezza e dell’umana comprensione nel nome della necessità di “dire tutto” e, quindi, di difendersi dalle ipotesi di avere in qualche modo mentito o falsificato la verità di fronte alle pazienti.
Sono convinto, e difficilmente cambierò idea, che la verità sia possibile da dire anche preservando la risorsa fondamentale della speranza: la medicina ha scoperto tante cose, ma ha spazi di ignoranza sulle importantissime risorse interne che possono attivarsi quando le persone malate decidono di credere di avere ancora vita, di poter ricevere ancora forme di cura che avranno la potenzialità di aiutarle.
Il valore della fiducia nel rapporto terapeutico
Vediamo ogni giorno quanto sia importante che, nell’ambito della relazione terapeutica, la fiducia non venga mai a mancare. E fiducia significa certezza che l’aiuto terapeutico sia solido e costante, mai messo in discussione perfino nei fallimenti e nelle fasi di ripensamento sulle cure che hanno smesso di funzionare. Non è vero che la sopravvivenza sia quantificabile: la vita di ogni medico è piena di testimonianze di persone che hanno vissuto molto oltre le previsioni dei curanti. Accade perché esiste qualcosa dentro di noi che non risponde esattamente alle descrizioni degli esami diagnostici e alle aspettative degli studi statistici: quel qualcosa ha bisogno di essere nutrito con la fiducia, con l’amore e con le parole adatte.
Le frasi da evitare nella comunicazione con il paziente
“Non c’è più niente da fare”: ecco una frase che va contro ogni dettaglio e ogni sfumatura della decisione di mettersi al servizio delle pazienti. Se a un certo punto diventa rifiuto, non è un servizio e forse non lo è mai stato veramente. Cosa significa che non esistono più terapie ed è inutile proseguire? Ultimamente mi è capitato di scoprire che alcune pazienti avevano ricevuto comunicazioni di questo genere. Significa, fondamentalmente, decidere unilateralmente che la persona cui a ci si sta rivolgendo debba ricevere un segnale di “stop” capace di cancellare la speranza e l’istinto di affrontare un giorno dopo l’altro con il desiderio di rimanere in vita.
TI POTREBBE INTERESSARE ANCHE -----> Tumore al seno: cosa fare se la lesione non è palpabile?
Il medico e la responsabilità della comunicazione
Il potere del medico è ancora molto forte: credo che vada usato con la consapevolezza che una frase disfattista implichi, per il sistema psicofisico delle pazienti, una condanna a morte. In tutti gli anni di professione chirurgica e medica non mi è mai capitato di mentire alle mie pazienti, ma non mi è nemmeno mai successo di negare un approccio terapeutico di qualche genere quando era chiaro che ciò determinasse un nutrimento importante per la loro fiducia e la loro speranza. Si tratta di usare la mente e il cuore, e di ricorrere alla scienza medica scegliendo, in ogni istante, ciò che è più indicato per il miglioramento del benessere e l’eliminazione della sofferenza.
Le parole sono medicine: sta a noi non trasformarle in veleno. Anche perché quando sono veleno nessuno di noi vorrebbe riceverle qualora diventasse un paziente.