Perdere la memoria: è normale che accada?

Perdere la memoria: è normale che accada?

Editato da: Antonietta Rizzotti il 12/04/2021

Può succedere con l'avanzare dell'età di avere piccoli disturbi di memoria: non ritrovare le chiavi, dimenticarsi nomi di persone appena incontrate, dimenticare un appuntamento, e così via. È presente una preoccupazione per la propria memoria. Preoccupazione che è condivisa da familiari e amici, i quali avvertono piccole differenze rispetto «a prima». Gli stessi disturbi possono rendere necessario uno sforzo o piccoli comportamenti di compensazione per continuare a gestire la propria vita e le interazioni. Il Prof. Francesco Orzi, esperto in Neurologia a Roma, ci aiuta a fare un po’ di chiarezza

Mild Cognitive Impairment o Disturbo neurocognitivo minore

Nel complesso la performance è ridotta, rispetto all’età e al background culturale o scolarità. La ridotta performance èPerdita di memoria spesso limitata alla memoria, ma può riguardare altri domini cognitivi, incluso il linguaggio, le funzioni esecutive (quelle che hanno a che fare con il nostro inserimento nel mondo sociale/lavorativo) o le funzioni visuo-spaziali (per esempio, orientarsi in un percorso o riconoscere forme da disegni incompleti).

Inoltre, una storia medica accurata rileva un declino, cioè una differenza della condizione attuale rispetto a un livello precedente. In tutti i casi si tratta di disturbi che non compromettono l’autonomia funzionale o l’attività lavorativa. Ci possono essere piccole difficoltà nello svolgere compiti complessi, nel senso che, per esempio, richiede maggior tempo portarli a termine.

Questa condizione è definita dagli addetti ai lavori Mild Cognitive Impairment (MCI) o «disturbo neurocognitivo minore». Se il modesto deficit riguarda solo la memoria, caso più frequente, si parla di MCI Amnestico.

C’è da sottolineare che dimenticare è normale, e spesso necessario o utile. Il cervello tende a promuovere il mantenimento di informazioni utili e a scartare informazioni che non abbiano rilevanza. Recenti dati suggeriscono che le informazioni si perdono non solo passivamente, ma il cervello opera per cancellare informazioni.

Come viene effettuata la diagnosi?

È chiaro quindi che non basta avere qualche dimenticanza per entrare nella categoria di MCI. Per fare diagnosi di MCI ci vuole una oggettività del disturbo, in genere da documentare con test neuropsicologici condotti da professionisti. Persone con MCI sono eterogenee nella espressione clinica e non sempre la diagnosi è facile. Soggetti con MCI sono anche eterogenei nella patologia che sottende il disturbo. Rilevante, sul piano dell’assistenza medica, è la nozione che innocue espressioni di cambiamenti emotivi o cognitivi associati all’età possono essere confusi con MCI, provocando preoccupazione e stress nel soggetto e familiari. Difetti di memoria possono infatti essere solo espressione di episodi depressivi o problemi internistici spesso reversibili, e non avere quindi alcuna relazione con un disturbo neurocognitivo degenerativo.

La diagnosi differenziale spesso non è facile, ma va perseguita con l’aiuto di esami biochimici o strumentali. La diagnosi è importante, anche per mettere in atto interventi terapeutici e soprattutto (al momento attuale) preventivi.

La diagnosi di MCI, quindi, non sempre è facile e, nonostante l'aiuto di corretti approcci diagnostici, può rimanere incertezza tra MCI o modesto deficit di memoria associato all’età o ad altri fattori non neurodegenerativi.  Per questo la prevalenza (numero di persone che presentano la condizione, in una popolazione al tempo della osservazione) di MCI è stimata con differenze sostanziali nella letteratura specialistica.

Qual è l’incidenza di questa condizione?

La prevalenza è di 4-19% in persone oltre i 65 anni di età, e di 1-3% nella popolazione generale.  MCI è certamente più frequente nella popolazione anziana e in soggetti con bassa scolarità. Età e scarso bagaglio culturale sono quindi i fattori di rischio maggiori.

Soggetti con MCI sono eterogenei anche nella prognosi. La condizione clinica di MCI infatti non sempre è a prognosi sfavorevole. In uno studio su 1.790 persone con MCI di età superiore ai 64 anni, a cinque anni dall’inclusione nello studio, soltanto poche persone mantenevano la diagnosi di MCI: 50-70% dei casi erano peggiorati a demenza, e 25-30% erano migliorati e regrediti a normalità (Fisk, Merry, e Rockwood 2003). MCI può essere quindi una condizione stabile, o addirittura in potenziale regressione, in una percentuale che varia tra 14 e 33% (Petersen et al. 2018). Circa un terzo dei soggetti con MCI sviluppa però un disturbo neurocognitivo maggiore nei susseguenti tre-dieci anni, con una quota di conversione a demenza di 10-15% per anno. MCI quindi non è una malattia. È una condizione clinica che può essere concettualizzata come una condizione di rischio, a delineare una probabilità (non sicurezza) di sviluppare demenza.

Benché ancora non ci sia la possibilità di valutare il rischio di conversione, cioè di sapere chi peggiorerà fino alla condizione di demenza e chi ritornerà a normalità, si può ridurre il rischio di conversione. Molti dati infatti suggeriscono che lo stile di vita è importante. Per «salvare» il nostro cervello è bene seguire alcune regole.

Neurologia a Roma